Ararat: alpinisti o turisti?
“Lo vedrete quando sarete al passo”. E’ quanto abbiamo capito da qualche parola in inglese di un ragazzo, tra le macerie abbandonate di Caldiran, a un anno dal devastante terremoto che aveva colpito la provincia di Van.
Ma arrivati al passo, vedo solo una pianura immersa in una strana nebbia. E’ poi nebbia? O solo polvere sollevata dal vento che proviene dall’Iran e invade lo sterminato altopiano?
La guida turca in auto con noi alza il braccio in direzione del nord: “Non lo vedi perché guardi in basso. Guarda in alto, sì, in alto. Vedi quel triangolo bianco che emerge dalla nebbia? Non è una nuvola. E’ neve, è ghiacciaio, è la cima.” Una cima, così alta, che sembra emergere dal nulla. “E’ là che dobbiamo arrivare, tu e i tuoi amici italiani; tutti insieme”. Le parole hanno il tono dell’ammiccamento, e al tempo stesso della sfida al mondo degli occidentali.
Partenza all’alba da Dogubayazit. Un’ora di scossoni su un malandato pullmino. La strada sterrata si interrompe alla base dell’enorme stratovulcano. Sassi e erba. Null’altro.
Un gruppetto di bambine si avvicina a noi: le loro mani, i capelli, i vestiti, gli occhi raccontano la fatica di vivere, ma anche rivelano l’allegria che talvolta, a quell’età, accompagna la fatica. Continuo a pensarci, a pensare anche ai miei anni dell’infanzia. Prendo un sacchetto di plastica dallo zaino. Si avvicinano curiose scambiando tra loro brevi cenni d’intesa. A una metto in mano un pomodoro, a un’altra un pezzo di formaggio. A una terza faccio capire che devo tenere il panino per me, per la lunga salita che ancora devo fare. Allora lei mi indica il vero oggetto della loro curiosità: le barrette di cioccolato che spuntano dallo zaino e che da sole valgono il chilometro fatto per venirci incontro, quando eravamo spuntati all’orizzonte. Una per ciascuna, faccio capire. Barrette subito scartate e masticate da denti bianchissimi e forti. Mi sorprende il fatto che buttino la carta nel prato, senza pensarci. La bambina col vestito rosso, più alta delle altre, sorride ancora, mi chiede un’altra barretta e indica la lontana tenda del loro accampamento. Capisco che non è per lei. E’ forse per la sua mamma? Rinuncio alla mia barretta. Strapperà un sorriso anche in quella tenda.
Con il tramonto è sceso un freddo intenso: lo ha portato un vento che non incontra ostacoli. Non sono una barriera le rocce. Nessuna supera l’altezza di una persona. E ci sono solo rocce vulcaniche. Non vedo un albero da tre giorni. Siamo a 4000 metri, logico. Ma non c’erano alberi neppure ai 3000 del campo base, a 2000, e ancora più giù, da dove avevamo iniziato a camminare.
Dalla tenda, incastrata tra massi neri, si vede bene il ghiacciaio sommitale; non sembra lontano. Un ghiacciaio che mantiene la sua luminosità anche nelle notte. Non c’è tempo per guardare le stelle. Le vedremo alla partenza per la cima, nel cuore della notte.
Anche un accidente banale, in alta montagna, determina uno stato d’ansia. Notte senza luna. Da un’ora saliamo lungo una tortuosa traccia tra i sassi. In fila indiana, silenziosi. La mia torcia frontale si spegne: non avevo cambiato le pile prima della partenza. Ora devo stare incollato alla guida che mi precede per poter vedere qualcosa. Devo stare ancora più attento, per non scivolare, non mettere il piede in una buca, o su un masso instabile. Due ore di salita prima di arrivare al ghiacciaio, proprio nel momento tanto atteso dell’alba. Un senso di liberazione dal buio e dal rischio di cadere. I ramponi, finalmente ai piedi, rendono il passo più sicuro. Intanto, al salire del Sole, un’ombra triangolare, enorme, si allunga sulla pianura. E’ l’Ararat che sembra indicarci la direzione verso cui volgere lo sguardo, lungo il tormentate terre al confine tra Turchia e Armenia.
La cima è come tante altre cime: luogo di abbracci e di respiro meno affannato, per quanto lo possa essere sopra i 5000 metri.
Sarà il sottile strato di nuvole, ma gli occhi vedono intorno solo una lontana e sterile pianura. Il nulla, viene da dire. Sul punto di vetta c’è una misera asta di ferro con uno straccio agitato dal vento.
La guida ci dice che alla fine del diluvio l’Arca si posò sul grande avvallamento che precede la salita alla cima. Sorrido con la bocca piegata di lato. Anche qui, come isolati dal mondo, anche dopo giorni di ambientamento, di convivenza in tenda e di faticosa salita, per lui siamo solo turisti.
Gabriele Zerbi
Pubblicato il 13/07/2017